La vittoria di Giusy Versace: “Ho sudato, ho lavorato, ci ho creduto. E ce l’ho fatta”

versacegiusycoppadi Valeria Guarniera - E' qualcosa di divertente fare l'impossibile. Lo diceva Walt Disney e Giusy Versace deve proprio averlo preso in parole. Amputata a entrambe le gambe dal 2005, in seguito ad un terribile incidente automobilistico, Giusy si è davvero divertita a fare l'impossibile, a sorprendere gli altri – e prima ancora se stessa - a raggiungere traguardi inaspettati. Calabrese doc, testarda e sanguigna, non si è fermata davanti a niente. Ci ha messo cuore e passione nell'affrontare quella che è stata quasi una seconda vita. A volte per diventare grandi bisogna tornare bambini ed è proprio quello che è successo a Giusy. Ha dovuto ricominciare daccapo: di colpo, si è trovata a fare i conti con un corpo che non riconosceva più e che voleva imparare ad amare, con abitudini da cambiare, con ostacoli diversi, sempre nuovi, da superare. Ha imparato, proprio come un bambino, a muovere i primi passi. Inciampando, tenendosi qua e là, pur di camminare da sola. E ha dovuto fare i con quell'immagine, diversa, che lo specchio rifletteva: prima la sedia a rotelle, poi le prime protesi. Il dolore, forte, insopportabile. L'amore dei suoi cari, costante, apparentemente invadente, fondamentale: "Le mie stampelle, la mia forza". Quelle protesi, da sole, non l'avrebbero portata da nessuna parte: un mix di passione per la vita e grande forza di volontà ha dato a quelle gambe la spinta per andare avanti. Poi la gioia della corsa, una sensazione dimenticata. Il ballo, la vittoria ... La incontriamo a Catania, stanca per lo spettacolo che ha portato in scena la sera prima insieme a Raimondo Todaro: "Un grande successo inaspettato, sarebbe bello poterlo portare al Cilea, spero che il giovane Sindaco ci venga incontro. Reggio è nel mio cuore, ci vengo spesso, lì ho gli affetti più cari. Credo che sia una terra dalle mille risorse, ha solo bisogno delle persone giuste che la valorizzino".

Sei campionessa paralimpica di atletica. Hai vinto insieme a Raimondo Todaro "Ballando con le Stelle". Il tuo libro è un successo e hai appena mosso i primi passi nel mondo del teatro. Il tuo nome viene spesso accostato alla parola "eccezionale". Spesso però ci si dimentica che questi grandi traguardi sono figli delle tante piccole sfide quotidiane che hai dovuto affrontare e vincere e che davvero, come un bambino, hai dovuto imparare con fatica a muovere i primi passi, imparando a stare in piedi da sola...

Sono passati nove anni da quando ho perso le gambe, quindi la gente mi vede già allenata,forte, padrona del mio corpo. Però è chiaro che dietro c'è stato tanto lavoro e un'immensa fatica. Le gambe si devono sostituire periodicamente, in genere ogni anno e mezzo, perché sono fatte su misura, bastano anche variazioni di millimetri e già gli appoggi cambiano, e a quel punto devi sostituirle. Il dolore c'è sempre, le gambe fanno male e la stanchezza ovviamente si fa sentire. In questi tre mesi di Ballando sono un pò dimagrita e questa perdita di peso, anche se minima, sulle protesi ha fatto la differenza. Ci ho messo due anni prima di ricostruirmi un vero e proprio equilibrio. Secondo me il segreto è porsi dei piccoli obiettivi. I piccoli traguardi per me sono stati alzarmi dalla sedia a rotelle, abbandonare le stampelle, tornare a guidare, tornare a vivere sola, imparare a vivere alla giornata. Io vivo davvero alla giornata, non ho un progetto definito. Secondo me tutto nasce dal fatto che ho rischiato di morire: ho visto la morte in faccia e non aveva una bella faccia. Non ho perso i sensi, quindi me la ricordo bene quella sensazione. La mia vita me la immagino come un puzzle che ho iniziato a comporre da bambina. Ad un certo punto questo puzzle – che era a buon punto - mi è caduto e l'ho dovuto ricominciare daccapo, raccogliendo tutti i vari pezzi. Ovviamente lì, sul momento, quando ti capita una cosa del genere è un disastro, bisogna ricostruire tutto, e lo vuoi fare in fretta. Io invece ho imparato ad avere pazienza e – ponendomi dei piccoli obiettivi quotidiani – ho ricominciato a mettere insieme i pezzi. E ogni tanto mi capita di trovare quel tassello che manca e che và a completare il mio puzzle. O addirittura trovo quel tassello che non sapevo neanche di cercare e vedo che si incastra alla perfezione. Com'è stato per l'esperienza di Ballando, della corsa, del libro che ho scritto o dello spettacolo teatrale: tutte cose che non avevo mai neanche immaginato di fare.

Continui a sorprendere tutti, forse prima di tutto te stessa...

Io mi sorprendo tutt'ora, nel senso che quando per esempio riguardo i video di Ballando resto a bocca aperta e mi chiedo "ma ero davvero io? Come ho fatto?" ... penso semplicemente che se non hai un pò di follia e un pò di coraggio per buttarti non sai mai se riesci. Non mi sento eccezionale, piuttosto credo di avere una buona dose di follia: non ci penso più di tanto, mi butto nelle cose che a istinto mi coinvolgono. Poi io amo le sfide. Anche camminare è stata una sfida perché le gambe fanno male, la protesi è comunque un corpo estraneo. Io conosco molta gente che non tollera il dolore fisico, che non ce la fa e pur di non sentire dolore sceglie la sedia a rotelle.

Quando hai indossato le prime protesi hai pianto dal dolore. Quando hai corso per la prima volta hai pianto di gioia...

La corsa è arrivata quasi per gioco, la mia curiosità mi ha spinto ad informarmi e ad interessarmi dello sport dedicato ai disabili. La scintilla che mi ha dato la forza di provarci è stato il desiderio di poter provare ancora l'emozione di una corsa. E quando sono riuscita a farlo per la prima volta ho pianto di gioia. Il mio cervello aveva completamente rimosso la sensazione della corsa: io non mi ricordavo come si correva. La sensazione è stata veramente forte: nel momento in cui ho cominciato a saltellare su quei piedi mi sono sentita viva e non invalida. Non ho mai pensato a correre con l'idea di fare le gare e vincere. Io volevo correre per il gusto di correre. Poi ho scoperto che ero la prima donna in Italia che correva senza due gambe. Mi hanno suggerito di fare delle gare ed io le ho fatte per divertirmi, per conoscere il mondo paralimpico. Nelle competizioni che faccio non corro per vincere, corro per lanciare dei messaggi di speranza. La mia medaglia d'oro l'ho già vinta la mattina in cui mi sono alzata dalla sedia a rotelle, mi sono guardata allo specchio e ho deciso di vivere lo stesso anche senza le gambe. A spingermi è sempre stata la curiosità. Sono stata sempre una persona molto curiosa e questo aspetto del mio carattere mi ha portato lontano. Steve Jobs diceva "stay hungry, stay foolish" e secondo me aveva ragione: bisogna essere affamati e folli per scoprire il mondo.

E poi la sfida del ballo, l'emozione di indossare di nuovo i tacchi...

Per qualcuno potrà sembrare una cosa da niente, ma davvero per me indossare di nuovo i tacchi è stata una forte emozione. Non volevo partecipare a Ballando con le Stelle. Quando me l'hanno proposto io avevo mille dubbi, per settimane non ho dato una risposta affermativa. Ero molto titubante, l'idea di stare ogni sabato sera in prima serata su raiuno mi intimoriva un po'. In più avevo paura che la tv avrebbe potuto storpiare il tipo di messaggio che volevo mandare e comunque avrei dovuto – come poi ho fatto - allentare di molto i miei allenamenti e congelare alcune attività lavorative. In più ho un nome pesante che fa chiacchierare, avevo paura della reazione della gente, di diventare un fenomeno da baraccone. Devo dire che l'entusiasmo generale attorno a me mi ha convinta ad accettare, e l'ho fatto pensando che fosse un'altra opportunità per lanciare ancora più forte il messaggio di vita, di speranza, di positività. Ho accettato di partecipare pensando agli altri, ma non avevo assolutamente messo in conto che un'esperienza così avrebbe potuto arricchire principalmente me stessa. La questione dei tacchi mi ha fatto riflettere: spesso sono io la prima a dire di andare oltre i limiti e poi alcuni limiti me li pongo io stessa. Nella mia testa indossare di nuovo i tacchi era tra le cose impossibili da fare. Il fatto di aver messo una scarpa col tacco, di camminare per i corridoi senza cadere e addirittura di ballare mi ha fatto sciogliere dall'emozione. Avevo ballato, senza cadere, senza inciampare, con i tacchi, senza perdere le gambe... beh, io alla prima puntata veramente mi sentivo di aver già vinto, e da lì le mie lacrime di commozione.

L'autoironia è da sempre la tua carta vincente e lo hai dimostrato ancora una volta, proprio a Ballando, quando, nella frenesia del ballo, una protesi si è staccata.

Si, ancora se ci penso mi viene da ridere. Tutti mi hanno detto che sono stata brava a sdrammatizzare, ma in realtà io ridevo veramente di gusto perché ripensavo a tutte le volte che, scherzando, avevo detto a mio fratello: "Ma tu ci pensi se mi vola la gamba in diretta?". In quel momento ho pensato a due cose: la prima: "Non ci posso credere che mi è successo davvero" e la seconda: "Dove cacchio sarà finita la mia gamba?" perché comunque, siccome mi è volata durante una presa, io davvero non avevo idea di dove fosse finita o se avesse preso in testa qualcuno. Io credo che bisogna sdrammatizzare sempre, in generale nella vita perché se non sei autoironico davvero non vivi più. Se ci si prende troppo sul serio diventa anche pesante vivere. Se tu ti prendi poco sul serio - e riesci a mantenere anche quel pizzico di follia, di quella incoscienza e di quel coraggio che sono tipici del mondo dei bambini – sicuramente vivi meglio. Noi adulti facciamo l'errore di crearci delle corazze, nascondendoci dietro ai meccanismi imposti dal ruolo che ricopriamo. Io credo che prima di tutto bisogna essere se stessi, con leggerezza. Raimondo Todaro ha dimostrato in quell'occasione – ma lo ha fatto davvero durante tutto il percorso - una grande professionalità ed una profonda sensibilità. E' sempre stato molto protettivo e si è instaurato un bellissimo rapporto che sicuramente non si interromperà.

Hai detto che attorno al mondo della disabilità c'è tanta ignoranza. E per te "affrontare lo sguardo della gente è stata un'altra dura prova".

In Italia purtroppo in questo senso siamo indietro, me ne rendo conto viaggiando sia per lavoro che per le gare. Non c'è proprio la mentalità, anche a livello mediatico si fa fatica a parlare di certe cose. Se pensiamo che è dovuto arrivare un sudafricano in Italia di Nome Oscar Pistorius perché si iniziasse a parlare del mondo paralimpico è assurdo. Anche perché prima che arrivasse Oscar ci sono stati tantissimi italiani amputati, o comunque disabili, che hanno dato lustro alla nostra nazione, che hanno portato medaglie importanti alle paralimpiadi, e nessuno ne ha parlato. Questo deve far riflettere. Si fa ancora fatica ad accettare la disabilità. Questo perche' c'è scarsa informazione e soprattutto non vengono tutelati adeguatamente i diritti dei diversamente abili. Dal parcheggio occupato, alle infinite barriere architettoniche fino ad arrivare all'assenza totale di strutture attrezzate per far praticare le diverse discipline sportive. Se sei particolarmente fragile l'ignoranza della gente ti può uccidere. C'è chi non esce di casa pur di non affrontare gli sguardi e i commenti. Ed io non volevo diventare così. Ho capito che molti guardano perché non sono abituati a vedere, non c'è cattiveria dietro. Però a doversi vergognare sono altri, non io che ho perso le gambe in un incidente. E' chiaro: non è che vado a dire a tutti che ho le gambe finte. Però se devo andare a mare, me ne frego: indosso le mia gambe da spiaggia e ci vado. Se voglio correre, indosso quelle da corsa e vado ad allenarmi. Poi è ovvio che la gente ti guardi. Io stessa, a parti invertite, lo farei: guarderei con curiosità. Ripeto: la gente non è abituata a vedere disabili che fanno – o quantomeno provano a fare - una vita normale. E non è abituata perché molto spesso chi ha gravi handicap è quasi costretto a stare a casa, a dover chiedere continuamente aiuto, perché nel momento in cui decidono di uscire gli ostacoli sono troppi.

Le barriere architettoniche che spesso sono frutto delle barriere mentali...

Esattamente. Partiamo sempre dalla convinzione che un disabile debba necessariamente essere aiutato e non dal presupposto che dobbiamo noi mettere il disabile nelle condizioni di sentirsi autonomo. Cioè, uno che viene in spiaggia in carrozzina deve avere il bagno accessibile, la pedana fino al mare. Deve avere insomma la possibilità di muoversi da solo, senza dover per forza chiedere aiuto a qualcuno. Perché ci sono quelli che non hanno problemi a chiedere aiuto. Ma ci sono anche quelli che non hanno piacere a farlo e che, vedendo solo ostacoli e barriere, alla fine decidono di restare chiusi a casa.

Nella frase "ieri il passato, domani il mistero, oggi il dono" c'è racchiuso il tuo modo di vivere.

E' il mio motto: ieri è il passato e non lo puoi cambiare. Domani è un mistero, non sappiamo quello che succede e oggi sicuramente è un dono. E' che noi siamo troppo abituati a rincorrere ciò che non abbiamo e che vorremmo avere e non diamo la giusta importanza alle cose preziose che comunque la vita ci ha dato. Perché a volte il fatto stesso di avere una casa, una famiglia, un amico, una persona a cui telefonare la sera è tutt'altro che scontato: sono dei doni secondo me. C'è gente che purtroppo è sola ... quindi, sembrerà banale, ma davvero è così: non sono le cose materiali ad essere importanti. Il periodo che ho passato all'ospedale subito dopo l'incidente è stato sicuramente importante in questo senso. Lì ero costretta in un letto, con delle cure farmacologiche, nell'attesa che si chiudessero le cicatrici: una situazione dalla quale non puoi scappare e che ti costringe a riflettere. Stando in ospedale mi sono resa conto di quanta gente mi volesse bene. Davvero prima dell'incidente non me ne rendevo conto. Cioè, non mi ricordo un momento sola, facevano tutti a gara per darsi il cambio e farmi compagnia, giorno e notte. C'erano dei momenti in cui volevo rimanere sola e non era possibile. In quel momento mi dava fastidio ma poi mi rendevo conto che era una grande cosa. Loro sono state le mie stampelle, la mia forza. Io sono arrivata dove sono arrivata perché ho avuto persone accanto che mi hanno permesso di crederci, che mi hanno stimolato, che hanno creduto in me, che non si sono spaventate. Cioè, veramente sono stati loro le mie stampelle. Io credo fermamente che Dio mandi nella vita di ognuno le persone che ci occorrono per diventare ciò che si è destinati ad essere. Da soli non si fa niente. Tu incontri qualcuno, un amico, un collega, un parente che a modo suo ti dà quello stimolo giusto. Secondo me Dio parla attraverso la gente. E' che noi siamo talmente presi da noi stessi che non ascoltiamo. In questo percorso io ho imparato ad ascoltare, questa è la cosa bella. La cosa che mi piace dire è che io non è che ce l'ho fatta perché mi chiamo Giusy Versace. Ce l'ho fatta perché ho sudato, ho lavorato, ci ho creduto, mi sono impegnata, ho sofferto. E ce l'ho fatta. Certo, avendo comunque un nome importante, avendo avuto la forza di reagire e di raccontarlo, posso essere stimolo per qualcun altro. Ho voluto dare un senso a quello che è successo. Ho pensato "Se ho perso le gambe un motivo ci deve essere". Quale fosse non l'ho capito subito – in realtà forse non l'ho capito neanche adesso – sono io che cerco di dare un senso a tutte le cose che faccio. Se tu una cosa bella la tieni per te va bene, ti rende felice. Ma se questa cosa la condividi con gli altri e crea nuovi frutti diventa straordinaria, assume più valore.